Un partito appena nato si presenta alle elezioni politiche e supera di slancio alla prima prova il 20 per cento dei voti. In Italia è accaduto nel 2013, con il ciclone Beppe Grillo. Ma qui si parla di cento anni fa. E il protagonista è il Partito popolare (Ppi) di don Luigi Sturzo, la cui fondazione risale appunto al 18 gennaio del 1919, con l’appello «a tutti gli uomini liberi e forti» rivolto da Roma a un Paese reduce dal trauma della Prima guerra mondiale. Solo dieci mesi dopo, quella formazione di cattolici che esordivano in politica rivendicando la loro ispirazione cristiana si affermava al secondo posto, dopo i socialisti, nel voto per la Camera del 16 novembre 1919 e diventava l’ago della bilancia indispensabile per consentire alle forze liberaldemocratiche, frammentate in diverse liste, di continuare a governare l’Italia.
Artefice di quell’impresa politica straordinaria fu un sacerdote siciliano nato nel 1871 a Caltagirone, il già citato don Sturzo, alla cui opera intellettuale e politica sono dedicati i contributi inclusi nel volume Liberi e forti, a cura di Alberto Mattioli e Pino Nardi (In Dialogo). Un libro che rievoca il passato e si avvale di testi provenienti dall’archivio dell’Istituto Sturzo di Roma, ma ha solo in parte un carattere celebrativo, perché l’intento degli autori è quello di mettere a confronto con i problemi di oggi l’insegnamento che proviene dal fondatore del Ppi.
Tutto era cominciato nel dicembre 1905, quando il prete siciliano, già fortemente impegnato nella vita politico-amministrativa della sua terra, aveva proposto di creare una forza politica di cattolici che non si ponessero «come unici depositari della religione» o come emanazione della Chiesa, ma quali «rappresentanti di una tendenza popolare» che vivificasse con valori di matrice cristiana un’azione in favore della democrazia e del progresso sociale.
Ciò avrebbe probabilmente diviso i credenti, molti dei quali erano piuttosto di orientamento conservatore, ma Sturzo, ricorda nel libro Matteo Truffelli, non temeva una prospettiva del genere, che riteneva fisiologica. Il rifiuto di partecipare alla vita politica dello Stato risorgimentale, come risposta alla breccia di Porta Pia del 1870, aveva tenuto i cattolici uniti, ma ne aveva anche congelato le forze: ora si trattava di uscire allo scoperto e misurarsi con i problemi della nazione, il che avrebbe fatto emergere inevitabilmente le differenze esistenti in quel composito universo.
Dovettero passare diversi anni, e la tempesta sanguinosa della Grande guerra,perché il progetto di Sturzo andasse in porto. E se la sua visione antistatalista e antimilitarista, favorevole alla cooperazione internazionale, alle autonomie locali, alla piccola proprietà e alla libertà della scuola, aveva un chiaro indirizzo democratico, il Ppi finì per aggregare gruppi assai meno propensi a una politica riformatrice. Nel 1919 facevano una gran paura i proclami rivoluzionari del Psi, che guardava alla Russia bolscevica, e sotto l’insegna di Sturzo, in funzione antisocialista, confluirono anche ambienti che poi avrebbero approvato l’ascesa del fascismo.
Purtroppo tra liberali e cattolici all’epoca la diffidenza restava acuta. E non fu possibile trovare un’intesa fra Sturzo e l’anziano statista Giovanni Giolitti, considerato dal prete siciliano, scrive Truffelli, «l’incarnazione di quel metodo trasformistico e conservatore che costituiva l’autentica zavorra del Paese». Il risultato fu che Benito Mussolini ebbe via libera e riuscì a mettere in scacco i cattolici democratici, avvicinandosi al Vaticano per spiazzare il Ppi. Fu proprio la Santa Sede che costrinse Sturzo, strenuo avversario del fascismo, a lasciare la guida del partito, nel luglio 1923. E mentre la dittatura avanzava, dopo il delitto Matteotti, il coraggioso prete dovette partire per l’esilio.
Sconfitto politicamente, Sturzo si caratterizzò come voce lucida e ammonitrice, nel soggiorno all’estero e poi dopo il ritorno in Italia, quando preferì non aderire alla Dc, ma rimase attivo e polemico fino alla morte, avvenuta nel 1959. Molti gli spunti che il suo pensiero offre agli autori di Liberi e forti. Sono assai stimolanti il saggio di Marco Vitale sulla sua visione economica favorevole al mercato, il contributo di Rosy Bindi sull’impegno antimafia, le considerazioni di Gianni Bottalico sul federalismo, l’analisi di Pierluigi Castagnetti sull’abisso che divide popolarismo e populismo. E poi le pagine di Mariapia Garavaglia, Michela Santerini, Nicola Antonetti.